Quante volte mi è capitato di sentir dire: le ragazze che postano foto nude mandano all’aria secoli di lotta femminista! Ma è davvero così? Pubblicare una foto del nostro corpo scoperto vuol dire mancare di rispetto a noi e alle nostre antenate che hanno combattuto per avere diritti?
La riposta credo si trovi nel valore politico dei corpi, non solo femminili, all’interno di una società che cerca continuamente di controllarli tramite regole ferree. Mentre all’interno dei media tradizionali stiamo faticosamente arrivando all’abbattimento di rappresentazioni stereotipate che vedono rappresentati solo alcuni corpi standardizzati (bianchi, magri, abili etc), esiste ormai uno spazio - a volte fin troppo - libero: internet.
Sopratutto i social rappresentano uno spazio entro il quale siamo liberə di esprimerci: l’autorappresentazione che facciamo di noi stessə può essere utile per creare una nuova narrazione della realtà, conferisce infatti potere narrativo a categorie di persone che non l’hanno mai avuto.
Cos’è il male gaze e perché ci influenza tuttə
Solo negli ultimi decenni il potere di rappresentare la realtà non è più solo nelle mani di uomini bianchi, eterosessuali e borghesi. Questo lento processo di inclusione di nuovi punti di vista mostra come per secoli a raccontarsi in letteratura, pittura, o più recentemente nel cinema o nella televisione non siano le persone rappresentate, ma un gruppo di uomini con la pretesa di possedere uno sguardo neutro sulla realtà.
Parlare di donne da una prospettiva femminile quindi non è scontato, e questo da anni influenza la percezione che gli uomini hanno delle donne e che le donne hanno di loro stesse.
L’idea che ogni prodotto audiovisivo venisse creato per soddisfare lo sguardo di un uomo bianco eterosessuale nasce negli anni ’70, precisamente nel 1975 quando Laura Mulvey teorizza l’esistenza del male gaze - sguardo maschile - che prevederebbe l’oggettificazione delle donne nei prodotti cinematografici dal punto di vista del regista, dei personaggi dell’opera e infine degli spettatori. Nello stesso anno la critica d’arte Anne Marie Sauzeau Boetti in un articolo dedicato all’arte americana scrive:
(…) le donne sono da così tanto tempo oggetti sessuali che sono coscienti della presenza fisica del loro corpo (anche se non riescono ad identificarsi con esso) molto più degli uomini.
(…) Le donne hanno coscienza di ogni movimento che fanno in pubblico, perché assumono un contenuto sessuale per il sesso opposto. Un po’ tutto questo deve per forza passare nel lavoro artistico.
Lo sguardo diventa un esame di come chi è al potere scelgono di vedere il mondo. In quanto tale, si collega alla costruzione del genere e della differenza sessuale e, più in generale, alla rappresentazione delle persone emarginate e oppresse. Lo sguardo riguarda chi controlla la rappresentazione: di conseguenza i corpi che non piacciono a chi ha il potere non meritano rappresentazione. Non è più possibile pensare che lo sguardo maschile sia uno “sguardo neutro”, né tantomeno si può continuare a non includere le minoranze quando si rappresentano le loro esperienze.
Il nuovo spazio di autorappresentazione: l’autoritratto sui social
Il mezzo primario con cui si veicolano messaggi su internet ormai sono i contenuti audiovisivi, ma qui intendo concentrarmi sulla fotografia, nello specifico sull’autoritratto fotografico.
L’autoscatto diventa un elemento fondamentale per il percorso di riappropriazione del sé, che non può che partire dal proprio corpo.
In questo senso l’autoscatto agisce come uno “specchio” senza filtri o mediazioni esterne.
Ed è per questo che i social giocano un ruolo chiave nel soddisfare questa necessità. All’interno dei social, come al di fuori, il corpo ha un valore immenso, un valore politico. Allontanandoci dagli standard imposti dal binarismo di genere, che vuole la donna in un modo e l’uomo in un altro, scalfiamo il male gaze e ci riappropriamo della narrazione sui nostri corpi.
La ribellione contro il controllo che la società vorrebbe esercitare sul corpo non è recente, risale alle battaglie femministe degli anni ’60 e ’70. Ma se nell’autoscatto di matrice femminista di quell’epoca c’era sempre un’indagine, un fine più alto e quindi in sostanza una giustificazione alla presenza di quei corpi nudi, ora non è più così. I social permettono di condividere immagini per creare una rappresentazione del sé, che ha ovviamente uno spettatore ideale, il quale gode di una posizione privilegiata in quanto “segreta”.
Il corpo non porta quindi con sé un messaggio, ma ha sicuramente uno scopo. Ed è normale che la rappresentazione che facciamo di noi stessə sia subordinata a come vorremmo che gli altri ci vedessero.
Dato che per secoli, come già detto, il target di ogni rappresentazione è stato un ideale spettatore uomo eterosessuale, è normale che come genere femminile abbiamo introiettato questa idea: nonostante ciò, credo comunque che scegliere come mostrarsi è già di per sé un atto rivoluzionario, anche se spesso implica ancora una parziale oggettificazione inconscia. Quello che ho pensato a seguito di molti fatti accaduti online e non, è che il problema non sia la nudità o la sensualità in sé - di cui siamo circondati nelle pubblicità, per dirne una - ma la sessualizzazione forzata (e la sua comunicazione tramite commenti molesti) insieme al libero uso che le donne fanno del proprio corpo.
Infatti quando una donna decide quando, come e se mostrarsi sui social, o addirittura se guadagnare tramite la pubblicazione di foto del suo corpo (magari con #adv di vestiti o biancheria intima), sfugge al controllo degli uomini e della morale pubblica. Per questo si sente il bisogno di condannare, criticare, sessualizzare o di accusare di star vendendo il proprio corpo.
Creare nuovi sguardi
La teoria dello sguardo riguarda una persona che guarda un’altra, o un gruppo di persone che guarda un altro gruppo: che sia nella vita reale, in un’opera d’arte o in un film, guardare significa affermare i proprio diritto a farlo. Se lo sguardo si verifica solo in una direzione, il presupposto è il dominio di una persona su un’altra.
Questo concetto è egregiamente riassunto da John Berger nel libro Ways Of Seeing (1972) in cui l’autore scrive:
Gli uomini guardano le donne. Le donne osservano se stesse essere guardate.
È solo restituendo lo sguardo che si può sfuggire a questa dinamica di potere ed eliminare il target di default impostato sull’uomo bianco, eterosessuale, borghese.
Il traguardo dovrebbe essere, sia nei media tradizionali che nei social media, arrivare alla creazione di nuovi sguardi, ad esempio uno sguardo femminile - il cosiddetto female gaze. Ideato dalla sceneggiatrice Jill Soloway, si oppone al male gaze ma non è il suo opposto.
Ne Il corpo Elettrico, Jennifer Guerra scrive:
Il female gaze non è solo lo sguardo di chi viene normalmente guardato, ma è anche il punto di vista di chi osa ritornare lo sguardo, di chi è consapevole di essere stato guardato per tutto questo tempo.
Anche il female gaze può essere trasferito sui social: autorappresentarsi senza pensare ad un’ideale spettatore uomo, mostrare la realtà dei nostri corpi (che siano vestiti o nudi) questa è l’emancipazione e la rivoluzione che sta iniziando grazie ai social.
Non credo quindi che pubblicare contenuti che mostrino il corpo femminile voglia dire dire esclusivamente accontentare lo sguardo maschile, e che il problema non siano tanto le donne che si auto-oggettificano, quanto gli uomini che si sentono in diritto di sessualizzarle come se fossero lì esclusivamente per il loro piacere.
Oltre al female gaze, esiste una pluralità infinita di sguardi data da esperienze soggettive diverse. Ad esempio nel 1992 bell hooks si oppone alla prevalenza del femminismo bianco nella teoria cinematografica femminista e conia il termine oppositional gaze, affermando che le donne nere non possono rivedersi nel female gaze poiché non solo non sono rappresentate, ma è loro vietata la visione stessa.
La speranza è che grazie al potere di autorappresentazione dato dai social media si creino sempre più sguardi che rappresentino la realtà di ognunə, dimostrano che ogni corpo ha diritto di esistere.
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