Pillole di linguaggio inclusivo: istruzioni per l’uso

Pillole di linguaggio inclusivo: istruzioni per l’uso

Sono certa che nell’immaginario comune, parlando di linguaggio inclusivo, si stagli nitida l’immagine del cosiddetto “asterisco egualitario”, un espediente ormai parecchio diffuso e, al tempo stesso, aspramente criticato.

Sull’uso di un linguaggio che promuova la parità di genere, l’opinione pubblica si spacca a metà: è raro, quasi impossibile, incontrare persone che pur gattonando ancora incerte nello scetticismo, manifestino una certa apertura. 

In sostanza, o si ha un rigetto per queste forme nuove, considerate limitanti e deturpanti per la lingua italiana, oppure le si abbraccia con decisione.

In opposizione ai tradizionalisti, in molti sognano una lingua dinamica e viva, che sia specchio della società e delle sue esigenze, che non ristagni.

Approcci al linguaggio inclusivo

Nell’articolo di Vice “Un linguista spiega perché l’asterisco di genere fa infuriare così tante persone”, si parla di cosa accade abitualmente quando sui social, e soprattutto in discussioni che coinvolgono una platea ampia, si usa un asterisco o si sottolinea che un approccio più inclusivo sarebbe auspicabile: 

“Succede quasi sempre che un’altra persona, e poi due, e poi dieci, interverrà per dire che ci sono battaglie più importanti in questo momento, che stiamo diventando perbenisti, che il femminismo “vi è sfuggito di mano” e che la lingua è così e nessuno se ne è mai lamentato.”

Nella maggior parte dei casi, i primi approcci con il linguaggio inclusivo non sono guidati e si presenta, sempre uguale a se stessa, la storia più antica del mondo: ciò che non si comprende fa paura, il cambiamento destabilizza.

L’asterisco, innocuo, da sempre apprezzato per le note a piè di pagina, io l’ho incontrato anche nei miei studi linguistici e filologici, prima di una parola ad indicare una forma della stessa non documentata storicamente e quindi ricostruita. 

Eppure, quella piccola stella a cinque o sei punte, pare diventare particolarmente spigolosa quando la troviamo al posto della vocale finale. Ci pare insomma un fastidio, un’interruzione del flusso ritmato della lingua e, di conseguenza, del pensiero.

Si può però davvero liquidare in questo modo qualsiasi cosa che, a primo impatto, disturba?

Penso di no, specialmente se non si conoscono bene i meccanismi della lingua che tutti utilizziamo spesso in modo inconsapevole e meccanico. Non ci si interroga neppure sui motivi per cui un linguaggio inclusivo pare sempre più necessario.

Pertanto il mio scopo è quello di fornire quanti più strumenti utili ad un approccio consapevole in un labirinto ancora sconosciuto in cui è difficile orientarsi. Prevenire la polarizzazione, in un senso o nell’altro, e indurre alla riflessione sono i miei unici obiettivi.

La lingua italiana: flessiva e priva di neutro

La nostra lingua non ha il genere neutro ed è flessiva, il che significa che pronomi, articoli, sostantivi ed aggettivi vengono declinati per genere.

Al plurale, riferendoci ad una serie di oggetti o di persone, utilizziamo convenzionalmente il maschile generalizzato, a differenza di quanto accade nella lingua inglese che prevede un plurale con desinenza finale -s, privo di genere. 

In inglese, inoltre, esistono solo tre articoli (the/a/an) che rimangono invariati e non cambiano in base al genere della parola a cui si riferiscono.

Certo, c’è una traccia di distinzione a livello dei pronomi (e in generale vi sono delle eccezioni anche per alcuni sostantivi), ma è una lingua che, per sua struttura, può essere considerata molto inclusiva.

Anche le poche parole che hanno due forme distinte in base al genere (ad es. brother/sister, son/daughter) presentano spesso anche una variante neutra (ad es. sibling, child). 

La lingua italiana, più rigida e meno malleabile, proprio per l’assenza del neutro, è stata spesso tacciata di un sessismo intrinseco. Questo anche perché alcuni elementi grammaticali e semantici sono indubbiamente portatori di discriminazione. Che agli oggetti inanimati sia affibbiato un genere non è rilevante, ma quando si parla degli individui le percezioni sono diverse. Sorge dunque spontanea una domanda: ma è la lingua che è sessista o è l’uso della lingua ad essere sessista?

La lingua italiana è sessista?

Alcuni sociolinguisti credono che il sessismo si riveli sia nell’uso linguistico sia all’interno del sistema della lingua. Tale sessismo intrinseco sarebbe dimostrato dall’inesistenza, in italiano, di un genere non marcato e dall’assegnazione di questa funzione al maschile.

La lingua, dunque, è sessista? Ricercatrici e ricercatori hanno dibattuto sulla questione. Si è visto che il sistema della lingua italiana non è sessista, perché, afferma Elisabeth Burr (linguista):

“Mette a disposizione mezzi e procedure per un’equa denominazione di tutti gli agenti […]. Sessista invece è la norma, che nessuna analisi del sessismo ha mai preso in considerazione. La norma è la realizzazione tradizionale e socialmente determinata del sistema e rispecchia, attualmente, una società androcentrica, dove l’uomo è gente e la donna sesso. In conformità a questi valori sociali e culturali, la norma attribuisce il valore primario al maschile”.

Ecco dunque che il sessismo non appartiene al sistema linguistico, ma all’uso della lingua, condizionato da pregiudizi e stereotipi.

Naturalmente, a prescindere dal fatto che si concordi oppure no con questa visione, la lingua ha subìto trasformazioni durante i secoli che l’hanno resa senza dubbio sempre più paritaria.

Un esempio che può interessarci ai fini della nostra analisi è quello dei sostantivi che indicano le professioni, che in origine erano solo maschili. Dal punto di vista storico l’evoluzione è avvenuta perché molti mestieri erano svolti unicamente da uomini. Grazie a secoli di lotta per l’emancipazione femminile poi, sono diventati ruoli accessibili per tutti (ad es. sindaco/sindaca).

Ma, nel caso di questa problematica specifica, la nostra lingua ha in sé già le regole di suffissazione per creare il femminile dei sostantivi, quindi il problema è di natura “integrativa”. 

C’è solo bisogno del dovuto tempo di adattamento affinché queste forme rientrino nel parlato e vengano universalmente riconosciute come valide anche dai parlanti e non solo dalle norme (ed anche perché queste forme vengano utilizzate senza applicarvi un sostrato di frivolezza o sarcasmo).

Nel caso del linguaggio egualitario, invece, si parla di una rivoluzione che intacca le strutture morfologiche della lingua. Capirete bene che è un’operazione molto delicata e anche estremamente macchinosa. Oltretutto, usarlo a voce è complicato, non essendovi un fonema (un suono) corrispondente.

Una dicotomia di genere strutturale

Un’operazione simile non può essere considerata frutto di un capriccio. 

La nota sociolinguista Vera Gheno, dichiara:

“Che piaccia o no alla “maggioranza”, esistono persone che al momento ritengono l’esistenza dei generi maschile e femminile un limite all’espressione di sé, anche solo nel rivolgersi a una moltitudine mista, che la norma prevede di appellare usando il maschile sovraesteso. Decidere “a tavolino” che questo disagio non esista o non sia degno di attenzione è, a mio avviso, un atteggiamento superficiale; e non è necessario che il suo contrario venga bollato per forza come un eccesso di “politicamente corretto”. 

E’ intuitivo che, in assenza di un neutro, si cada involontariamente in una dicotomia di genere che non riguarda solo il piano linguistico ma, anche e soprattutto, quello socio-culturale.

Non sono solo i pensieri dei parlanti a plasmare la lingua, anzi, è spesso la lingua a plasmare i pensieri di chi la utilizza. 

I pensieri prendono forma attraverso la lingua; quando ne stiamo imparando una, le nostre capacità comunicative sono praticamente dimezzate perché abbiamo a disposizione un vocabolario appena sufficiente ad esprimere concetti basilari. Spesso per comunicare in un’altra lingua pensiamo nella nostra lingua madre e poi tentiamo di tradurre, perché se dovessimo farlo utilizzando solo le parole che conosciamo in fase di apprendimento, produrremmo dei pensieri scarni, sommari e inconsistenti. Non avrebbero parole a cui ancorarsi, i pensieri, e resterebbero effusi e nebulosi,  incapaci di realizzarsi o di essere oggetto di una comunicazione efficiente. 

Accade che il nostro mondo, acquisito nella sua eterogenea interezza, viene poi restituito in categorie ben distinte (maschile e femminile). Diventa così parecchio difficile abbracciare con naturalezza le infinite sfumature che non ricadono interamente nell’una o nell’altra categoria o che, talvolta, si collocano al di fuori di entrambe

Sto parlando non solo delle persone trans, a cui spesso ci rivolgiamo con pronomi incongruenti alla loro identità, ma in particolar modo delle identità non binarie.

In questa categoria rientrano tutti coloro che hanno una concezione fluida e mutevole del proprio genere, i casi in cui esso è costituito da un mix e quelli in cui è del tutto assente.

Ecco spiegato il perché se anche si volesse evitare l’uso del maschile generalizzato con la formula, più inclusiva, di “care tutte e cari tutti”, essa comunque non sarebbe risolutiva.

L’asterisco egualitario: un suffisso “jolly” 

Adesso sappiamo perché nasce l’esigenza di un espediente quale l’asterisco egualitario.  Ma, concretamente, come nasce?

Bisogna considerare che non esistono articoli “ufficiali” di linguistica che si occupano dello studio dell’asterisco come suffisso neutro. E’ una forma ancora non riconosciuta e pertanto non appartenente all’italiano standard (ovvero la varietà di lingua soggetta a codificazione normativa, valida come modello di riferimento per l’uso corretto della lingua). La maggior parte delle fonti sull’argomento sono di tipo giornalistico e si focalizzano solo sul perché l’asterisco venga usato. 

La sua funzione potrebbe anche essere ripresa dall’ambito informatico, nel quale esso è considerato un carattere jolly.

Permette durante un’operazione di ricerca di files o cartelle, di effettuare ricerche ad ampio spettro, ed è per questo che anche in linguistica potremmo definirlo una sorta di “suffisso jolly”. 

Come vedremo più avanti vi sono varie alternative, ma l’asterisco è indubbiamente la soluzione al momento più conosciuta e più gettonata, che rappresenta il simbolo di questa spinta innovatrice.

L’asterisco (*) si sostituisce alla vocale finale di parola, ma, come già evidenziato in precedenza, presenta diversi aspetti problematici in particolar modo nell’oralità. 

I limiti dell’asterisco

Gennaro Madera, giovane autore e poeta, sostiene:

“Il più grande limite che presenta l’asterisco è quello del suono: come pronunciarlo? Ogni cosa che vedo e che scrivo nella mia testa ha una voce, un suono, una pronuncia. Una soluzione del genere consiste nel troncare, spezzare totalmente quella che è la bellezza della lingua italiana, il suo fluire. 

Come cantarlo? Come inserirlo in un libro? Da scrittore sono un maniaco dell’armonia delle parole: io credo che ogni parola ne tiri un’altra. Molti miei testi nascono così. Io ricerco il suono, la rima, l’assonanza, la consonanza. Troncare le parole distruggerebbe tutto questo naturale processo.

Potrebbe sembrare io sia un conservatore della lingua: così non è. Nei miei testi ho addirittura inserito dei termini da me inventati come fira (italianizzazione del termine inglese fear). Mi piace l’evoluzione delle lingue, ma l’asterisco lo percepisco come poco pratico, più un vezzo che una rivoluzione.

Credo, piuttosto, che una maggiore inclusività risieda nel rispetto, nell’ascolto e nel confronto, che passi attraverso gli ideali e i valori che si professano e praticano quotidianamente. A mio parere non adottare queste nuove simbologie, non rende chi è inclusivo nel quotidiano, meno inclusivo.

Se una persona mi chiede di chiamarla con un determinato pronome accolgo e adotto tale pronome. Quando però parlo a più persone cerco di essere il più neutrale possibile senza tuttavia usare l’asterisco. Cerco di essere inclusivo nella mia attività sia di scrittore che di comunicatore, ma reputo inascoltabile il suono di un simbolo.”

La schwa e altre alternative all’asterisco

Pur condividendo le preoccupazioni di Gennaro, mi sono chiesta se c’è ancora qualcosa che non conosco, se esistono soluzioni alternative ed ulteriori espedienti che, pur non eliminando il problema alla radice, rendono più facile l’utilizzo di un linguaggio egualitario sia in forma scritta che orale.

Mi sono rivolta quindi a Car, attivista e fondatrice della pagina Instagram “Polycarenze”, che utilizza abitualmente un linguaggio inclusivo. Chi lo pratica nel quotidiano può di certo fornire una panoramica completa che si basa anche sulla propria esperienza. Per questo le ho chiesto di spiegarmi come si esprime nei vari contesti, se riesce sempre a servirsi di alcuni accorgimenti, quali sono e in che modo cambia il suo modo di comunicare in forma scritta e orale: 

Per la forma scritta preferisco la shwa (ǝ), in quanto ha un suono corrispondente (una sorta di suono vocalico neutro, indistinto, già presente in molti dialetti del centro e sud Italia che, per intenderci, è come se si collocasse nel mezzo tra una “a” e una “e”).  

Uno dei motivi principali per cui le persone sono scettiche nei confronti dell’asterisco è l’effetto deturpante per la lingua italiana, conosciuta per avere dei bei suoni ed essere facilmente leggibile. Io penso che sia anche molto una questione di occhio: stona avere un simbolo, mentre utilizzare una lettera stona un po’ meno, non credi? Graficamente anche la “x” la preferisco all’asterisco; a volte uso anche la “u”.

Per quanto riguarda l’orale, uso la “u” e penso sia molto importante l’utilizzo dei termini inclusivi come “persone”, “soggettività” ecc. La forma orale che uso varia da spazio a spazio.

È molto complesso usare un linguaggio inclusivo nell’orale e in ogni situazione. E’ come se tutte le persone coinvolte dovessero imparare una nuova lingua e riadattare le forme acquisite. Questo non significa che non si possa fare, ma è ancora un po’ complicato.”

Come suggerisce Car, ci sono molte alternative all’uso dell’asterisco. Interessanti le proposte dell’italiano inclusivo che raccoglie sull’omonimo sito informazioni dettagliate sulle origini di questo tipo di linguaggio e sulle modalità tramite le quali concretamente si sviluppa.

L’italiano inclusivo

Eccovi un estratto dal sito: 

“Sono stati pensati vari nomi per questa proposta. Una delle prime, italiano neutro, è stata soppiantata e sostituita con italiano inclusivo perché la terza declinazione, per noi, non implica l’assenza di un genere, ma l’inclusività di tutti i generi. Per questo ne proponiamo l’uso a chiunque: uomini e donne cis e trans, anche le persone binarie, oltre ovviamente a chiunque non si identifichi in un genere binario.”

Tra le alternative spicca quella basata sulla schwa (ǝ) e sulla schwa lunga (з), che è sia scrivibile che pronunciabile ed è declinabile sia al singolare che al plurale. 

Riporto l’esempio di un sostantivo regolare per rendere l’idea della soluzione a cui ho accennato: 

La norma va “forzata”?

In effetti studiando i meccanismi proposti dall’italiano inclusivo e ascoltando Car, che ne parla in maniera tanto naturale, sono approdata ad una riflessione: sarà forse questione di abitudine? Probabilmente sì, ma il discorso crea ancora scalpore. La si percepisce come una forzatura, fastidiosa imposizione del politically correct, da sradicare prima che diventi un infestante parassita.

Ma si può parlare di forzatura? Di imposizione? Mi pare eccessiva l’indignazione feroce dei più e anche di molti studiosi tradizionalisti. Essi si scandalizzano come io ricordo di aver fatto leggendo il sistema della neolingua ideato da Orwell in 1984. Una lingua imposta dall’alto, che stravolge e codifica la lingua madre sfociando nella censura e nell’atrofia del pensiero; non è assolutamente questo il caso, anzi.

Gheno, che studia questioni di lingua e genere da molti anni, invita le persone che ritengono inappropriate queste soluzioni a vivere con maggiore laicità il dibattito:

“Nel sistema-lingua possono convivere più o meno serenamente le regole, necessarie affinché il codice funzioni (la cosiddetta “norma”), e un certo grado di libertà.

Tutto questo può rimanere là, ai margini del sistema-lingua, senza dare particolare fastidio alla lingua stessa”.

Quindi, perché non considerarla come una corrente parallela a quella dell’italiano standard, da utilizzare nei luoghi e nei tempi che lo richiedono? 

Non c’è bisogno di un totale rigetto o di una totale assimilazione di queste nuove forme: può esserci una via mediana.

Gennaro Madera aggiunge:

“Io penso che sia giusto che ci si batta per un ideale, anche rivoluzionario: così si cambia, con mutamenti che lentamente si radicano nel tessuto sociale e nel quotidiano. Non è una forzatura, piuttosto una sfumatura. Non sono contrario all’uso dell’asterisco come “corrente” parallela all’italiano classico. Scelgo di non adottarlo ma lo rispetto e lo accetto senza alcun problema.

La lingua può essere forzata solo attraverso una dittatura: ma così non è ora, quindi, comunque dovesse andare in futuro, avrà fatto il suo corso. 

Questa lotta porta a riflettere, quindi fa già bene.

Magari un domani l’asterisco non sarà più un errore nei temi scolastici: vedremo. Una volta si parlava troncando le parole: potrebbe ritornare. Sicuramente sarà un qualcosa di naturale, la lingua la fa il popolo: chi la applica e pratica.”

Car sostiene:

La lingua è un prodotto culturale ed è destinata ad evolversi nel tempo come sempre.

E’ vero, non è facile usare il linguaggio inclusivo nel parlato, ma potremmo partire dallo scritto. Non penso che vada forzata la lingua, penso che le persone debbano sforzarsi un po’ di più.”

mentre la Gheno, in un suo articolo sulla questione, scrive:

Per me la lingua è molto, praticamente tutto. Di questo tutto qui richiamo tre aspetti che trovo pertinenti: la fantasia, la norma e l’attenzione. Se non abbiamo una norma in grado di designare entrambi i generi non dico di inventarcela, ma almeno di cominciare a immaginarcela, a lavorarci su.”

Non è una moda: passi verso il cambiamento

La parola è uno strumento molto potente, che ha la capacità e la responsabilità di condizionare la realtà sociale. Con ciò non intendo certo affermare che per mezzo delle sole modifiche linguistiche si possano risolvere molti problemi reali, ma è un “primo” passo necessario verso qualcosa di più grande. 

Un passo consapevole, altruista, tenero, paziente, verso delle esigenze che richiedono attenzione. Pur non utilizzando un linguaggio totalmente inclusivo in ogni spazio, l’apertura fa la differenza.

Quella dell’asterisco, della schwa, non è una moda. 

E’ più che giusto che continui ad esservi una lingua più fluida, musicale, che si presti bene alla scrittura poetica di cui parlava Gennaro e che possa operare senza pretesa di inclusività perenne. 

Allo stesso modo è responsabilità di ognuno fare in modo che nel quotidiano e nei rapporti interpersonali la lingua diventi più morbida, meno binaria; che dia spazio a tante realtà che, se restasse ferma nella sua pura inflessibilità, non accoglierebbe.

Strategie utili per utilizzare un linguaggio più inclusivo

In tal senso si è mosso anche il linguaggio amministrativo, e nel suo saggio dal titolo “Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo”, Cecilia Robustelli evidenzia delle possibili strategie che rendano un testo più inclusivo. 

Tra queste vi è la strategia di oscuramento di entrambi i generi, che prevede l’uso di perifrasi che includano espressioni prive di referenza di genere, come ad es. persona, essere, essere umano, individuo, soggetto.

Un altro metodo è la riformulazione con nomi collettivi o che si riferiscono al servizio (ad es. personale dipendente/docente, magistratura, direzione, corpo docente/insegnante, segreteria, presidenza, servizio di assistenza, utenza ecc.) o la riformulazione con pronomi relativi e indefiniti (ad es. “chi/ chiunque arrivi in ritardo”).

Il genere può essere “oscurato” anche attraverso strategie di tipo sintattico, come l’uso della forma passiva, che permette di non esplicitare l’agente dell’azione (ad es. “La domanda deve essere presentata” invece di “I cittadini e le cittadine devono presentare la domanda”) oppure l’uso della forma impersonale (ad es. “Si entra uno alla volta” invece di “Gli utenti devono entrare uno alla volta”).

Naturalmente queste riflessioni si collocano in un contesto più ampio che per me sarebbe impossibile analizzare, ma sono applicabili anche nel parlato e di certo non richiedono particolari sforzi. Penso possano rappresentare un esempio ed un punto di partenza per i neofiti e per coloro che aspirano ad acquisire sempre più consapevolezza.

Il linguaggio è il nostro guscio

In definitiva, la lingua muta e continuerà a mutare e ad adattarsi a diverse strutture e contesti. Ma se da un lato la scorrevolezza della tradizione ci rassicura ed è parte di noi, dall’altra, non è forse di fondamentale importanza che vi sia spazio per il cambiamento e per tutte le soggettività altre?

Non è una priorità che ognuno possa essere “dentro il linguaggio come dentro il proprio corpo”?

“Il linguaggio è il nostro guscio e le nostre antenne, ci protegge contro gli altri e ci informa su di loro, è un prolungamento dei nostri sensi. Siamo dentro il linguaggio come dentro il nostro corpo; lo sentiamo spontaneamente, come sentiamo le nostre mani o i nostri piedi; lo percepiamo quando sono altri ad usarlo, così come percepiamo le membra degli altri.”

Jean-Paul Sartre

Ringraziamenti

Si ringraziano Gennaro Madera (@haiventanni) e Car di @polycarenze per l’intervento e Marika Monda (@jalexauhl) per il disegno di copertina.

Fonti

Immagini:

  •  sinapsi.unina.it
  •  neg.zone
  •  metismagazine.com
  •  cademiasiciliana.org
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