Il concetto di integrazione è intrinsecamente legato alla storia che questo paese ha con l’immigrazione. Tuttavia all’interno di una discussione sul razzismo sistemico, parlare d’integrazione non ha senso.
Il dizionario ci fornisce un significato che, tecnicamente, assume una connotazione prettamente positiva:
L’incorporazione di una certa entità etnica in una società, con l’esclusione di qualsiasi discriminazione razziale; estens., l’inserimento dell’individuo all’interno di una collettività, attraverso il processo di socializzazione.
Nella realtà dei fatti, in Italia, si parla di integrazione solo quando la politica tenta di proporre una soluzione già vista e rivista ad un problema che non ha nulla a che fare con l’integrazione.
L’integrazione presuppone che siano i singoli individui a tentare di essere parte integrante della società in cui vivono.
Nel frattempo la politica italiana ignora il fatto che tutto ciò sia già avvenuto con la generazione dei nostri genitori.
Nella maggior parte dei casi non sono nati in Italia ma si sono comunque adattati a una società che li ha sempre tenuti in disparte.
Così la mia generazione e quelle successive sono state cresciute da italiani senza cittadinanza che hanno sempre sottolineato quanto fosse importante integrarsi.
Questo perché integrarsi significa minimizzare le possibilità di poter subire micro aggressioni a sfondo razziale, significa cercare di rendersi più italianǝ degli stessi italianǝ caucasicǝ. Ovviamente per poi scoprire che non verrai mai ritenutǝ effettivamente italianǝ. È come un gioco a premi ma senza fine, c’è sempre un qualcosa che devi assolutamente fare per riuscire ad essere percepitǝ come italianǝ.
L’integrazione per come viene percepita in Italia, parte dall’idea che debbano essere le altre minoranze a farsi accettare, che debbano categoricamente cercare di sembrare più occidentali. Per questi motivi, parlare di integrazione all’interno di una discussione sul razzismo sistemico, non ha assolutamente alcun senso logico.
Diventa poco pertinente e controproducente.
Sbiancarsi per integrarsi
Fondamentalmente non importa quanto tu abbia studiato, quanto tu sia acculturatǝ.
Nel momento stesso in cui ti troverai ad interloquire con una persona caucasica, nella maggior parte dei casi diventerai uno stereotipo vivente.
Non ha importanza se hai passato gran parte della tua esistenza a cercare di scostarti dalle tue origini. Il tentativo di sembrare più bianchi avviene in automatico, diventa una modalità di sopravvivenza.
Il rifiuto delle proprie origini, quella necessità di sbiancarsi si insinuano come un parassita. Hanno subito terreno fertile nella mente di una persona Afroitalianǝ, soprattutto nell’età dell’adolescenza e prima ancora dell’infanzia. Qui si ripropone il problema della rappresentazione.
Diventa logico percepire la propria nerezza come un difetto, se nei mass media non vedi persone simili a te.
È estremamente pericoloso.
Diventa pericoloso soprattutto quando notiamo che per quanto potremo cercare di renderci più italianǝ, la nostra identità verrà sempre messa in dubbio.
Ermenegildo e il bilinguismo
Quante volte è successo ad una persona non bianca di doversi relazionare con persone caucasiche e trovarsi a dover ripetere più volte una stessa frase, perché dall’altra parte Ermenegildo finge di non capirti.
Il che diventa curioso quando hai una dizione pressoché perfetta, magari anche connotata da un accento regionale ma questo non ha importanza.
Parlare d’integrazione ha senso quando il tessuto sociale è quasi privo di bias razzisti.
Anche quando la dizione non è perfetta, nella maggior parte dei casi è perché la persona non bianca in questione, sicuramente, parla più lingue. Sappiamo perfettamente che è normale, ad esempio per un ragazzo Afroitaliano, parlare fluentemente l’italiano, il francese o l’inglese e la sua lingua d’origine.
Ora mettiamo caso che abbia meno fluidità parlando italiano: non è una persona che parla perfettamente tre lingue e giustamente a volte confonde alcune parole. È un selvaggio che non si sa esprimere.
D’altro canto un ragazzo svedese che parla la sua lingua madre e l’italiano, molto probabilmente non subirà lo stesso tipo di trattamento.
Molto probabilmente qualsiasi errore di pronuncia o sintassi gli verrà perdonato.
Da questo punto di vista fu emblematico il caso della Principessa Charlotte. Sulla figlia dei duchi di Cambridge William e Kate, uscirono vari articoli riportando il fatto che la bambina sapesse già parlare più lingue.
Molte persone non bianche, misero l’accento sul fatto che questo diventa un tratto straordinariamente positivo solo quando si parla di bambini caucasici.
La Bossi-Fini: la legge anti-immigrazione
Quante volte abbiamo sentito storie di insegnanti che chiedevano ai figli di persone non bianche di non parlare la lingua d’origine con loro.
La versione ufficiale era che i bambini avrebbero fatto più fatica a imparare l’italiano.
In realtà questa teoria non ha fondamento, moltissimǝ ragazzǝ Afroitalianǝ hanno imparato due o più lingue tra l’infanzia.
Mentre la politica forniva interpretazioni a senso unico del concetto di integrazione e stilava liste su liste di quello che avrebbero dovuto fare le minoranze per essere considerate al pari degli italiani autoctoni, il processo d’integrazione stava avvenendo lo stesso.
Leggi prive di senso come la Bossi-Fini hanno ostacolato questo processo. Non si è risolto il problema degli sbarchi o della cosiddetta invasione. Hanno solo creato altre complicazioni in un contesto in cui già non si stavano elaborando delle politiche di immigrazione rispettose dei diritti umani.
I partiti si sono accaniti su un nuovo capro espiatorio, cancellando l’antimeridionalismo e proponendo un nuovo nemico, colpevole di esistere e di non starsene a casa sua.
A differenza di tante problematiche legate al razzismo, qui la questione non è solo culturale ma anche politica.
Ogni governo si è sempre tenuto ben lontano da qualsiasi discussione utile sulle leggi che regolano l’immigrazione nel nostro paese.
È un tema che fa perdere consensi.
Nei rari casi in cui una parte di politica evidenzia l’urgenza dello Ius Soli, arrivano ondate di benaltrismo da quasi tutti i partiti. Sappiamo bene che, in Italia, c’è sempre qualcosa di più importante.
Italiani senza cittadinanza
In generale, abbiamo tutti pessimi ricordi di funzionari sgarbati e razzisti. La maggior parte gioca quasi a fare Dio con la vita di persone che cercano una stabilità. Chiaramente per poi sentirsi dire che i documenti non vanno bene e magari non riceverai neanche una spiegazione.
Spesso si crede, erroneamente, che nascere in Italia pur avendo genitori non italiani, possa darti automaticamente diritto alla cittadinanza: non è assolutamente cosi.
Un bambino nato in Italia da genitori, per esempio, ivoriani non può accedere subito alla cittadinanza. Deve raggiungere la maggiore età e ha una breve finestra di tempo per poter fare domanda.
Una volta chiusa quella finestra di tempo ricominci da capo, giuridicamente è come se fossi appena arrivatǝ in Italia.
Ora, sappiamo bene i tempi della burocrazia italiana. Sappiamo ancora meglio come sono gestiti gli uffici che si occupano delle pratiche per ottenere la cittadinanza.
Devi dimostrare di aver conseguito qui gli studi e di aver risieduto in Italia in modo continuativo.
La questione dello Ius Soli non può essere allontanata con del becero benaltrismo. Non possiamo accusare le persone non bianche di non volersi integrare, quando ancora non abbiamo leggi che siano giuste e funzionale in materia di immigrazione.
Ci mancano gli strumenti di base.
Ovviamente non basta, il problema è anche culturale e quindi è necessario che la società riconosca l’esistenza di persone BIPOC italiane.
Tuttavia non basta questo, perché non si tratta di accettazione ma di rendere il tessuto sociale coerente con una società che è multiculturale.
Neri fuori dal comune
Questo perché il rischio è quello di vedere articoli in prima pagina in cui la notizia è il fatto che un ragazzo Afroitaliano abbia preso una laurea in giurisprudenza. Quella non è una notizia ma un fatto che i media evidenziano, poiché ritenuto straordinario, fuori dal comune.
Partendo sempre da quel bias razzista per eccellenza.
Secondo il bias razzista per eccellenza, le persone di origini africane non sono in grado di portare avanti un’istruzione di livello con ottimi risultati.
Se Ermenegildo vede la notizia di una ragazza Afroitaliana che è diventata giudice, sarà abituato a percepire il fatto con stupore, come se fosse qualcosa fuori dal comune.
Motivo per cui quando incontrerà una persona non bianca con un’istruzione di alto livello sarà sorpreso.
La verità è che la maggior parte delle persone non bianche nate in Italia, che porta a termine un’ottima formazione, poi non rimane qui e il motivo è sempre lo stesso.
È raro che qualcuno ci assuma per una posizione di rilievo per cui abbiamo studiato e la ragione è abbastanza logica. Come può avere senso parlare d’integrazione, se per una persona non bianca, è doppiamente trovare un’occupazione.
Eliana e Judith
Questo vale anche per occupazioni che non prevedono necessariamente una preparazione accademica, come nel caso di Eliana Cau.
Eliana Cau, 24enne afroitaliana, nel 2007 non è stata assunta in un ristorante della Valle D’Aosta. Perché? Secondo la titolare “ai valdostani non piacciono le persone dalla pelle scura”.
Nel 2018 Judith Romanello, ragazza Afroitaliana, non viene assunta in un ristorante di Venezia. Perché? Secondo il titolare i clienti avrebbero provato disgusto sapendo che sarebbe stata una persona nera a portare i piatti ai tavoli.
Addirittura ci dice che inizialmente al primo contatto telefonico, l’uomo non aveva evidenziato particolari questioni.
Probabilmente perché, grazie all’accento Veneto di Judith, non gli era passato neanche per l’anticamera del cervello che lei potesse essere nera.
Questi sono pochi esempi del fatto che il processo di integrazione tanto menzionato dalla politica italiana e da una buona parte di società, in realtà è già avvenuto. Anche se è avvenuto solo da parte delle minoranze.
Non ha senso parlare di integrazione se non si affronta la questione dal punto di vista sociale, culturale e politico.
Non ha senso parlare di integrazione, se la società, i media e la politica percepiscono le persone non bianche come italiani di seconda categoria.
Simone, 29 anni laureando in Scienze dell’Educazione e attivista
A priori, a mio avviso, va discusso della storia negata, ovvero la storia dei vinti. In Italia non c’è alcuna consapevolezza del passato coloniale italiota. Parlare di l’integrazione, o come amo definirla io, il grande desaparecido è pressoché utopico.
Gli italiani bianchi genuinamente e in modo molto naive credono davvero di essere esclusi dalla questione razzismo.
Ciò deriva da una mancanza di educazione all’altro in altre parole di una politica inclusiva che tenda la mano e non ostacoli.
In teoria esiste formalmente una politica di integrazione/ inclusione ma nei fatti non è concretizzata, lo Stato italiano porta avanti un gioco perverso.
Un po’ come il gatto con il topo, il predatore e la preda.
La preda dopo mille peripezie riesce a sfuggire al giogo, questo sempre se non ha perso la voglia di lottare, potrà vedere la libertà.
Questo sentimento di inadeguatezza o del never fit in coinvolge soprattutto i figli delle prime ondate migratorie. Spesso scappano letteralmente dall’Italia perché stanchi di combattere contro bias e continue molestie a sfondo razziale. Più che parlare di normalizzazione, che rimanda ad un concetto arbitrario di giusto o sbagliato, io parlerei di equità sociale .
Io in quanto persona non bianca non devo normalizzarmi al bianco di turno, perché così lui non si spaventi.
Io devo essere, esistere a prescindere da quanto possa mettere a proprio agio l’italiano medio.
I nostri corpi diventano un vero e proprio atto politico, se volete resistenza.
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